COLICO
Il paese di Colico è l’ultimo della sponda orientale del ramo lecchese del Lario, si trova immerso in un grandioso scenario di monti dominato ad Est dal Legnone, a Nord dalle cime del Chivennate fra cui spicca il Sasso Manduino e ad Ovest dalle vette dell’alto lago.
È un’importante località turistica, sia di soggiorno che di transito: è, infatti, situato nel punto di convergenza delle strade provenienti da Lecco, Chiavenna e Sondrio, cioè dalla pianura e dai passi alpini e, ancora più lontano, dalla Svizzera e dall'Austria.
Un punto chiave dei traffici fra il nord ed il sud, abitato già in epoca romana e preromana, fortificato in epoca comunale, devastato dal passaggio delle truppe straniere che si dirigevano verso Milano, dalle pestilenze e dalle ripetute alluvioni dell'Adda.
Nel Quattrocento e nel Cinquecento venne infeudato a diversi signori: i Visconti, i Sanseverino, gli Sforza, i Caldarini, i Pusterla, i Quadrio e gli Alberti. Alla fine del Seicento il territorio circostante era un acquitrino disabitato e maleodorante.
Riacquistò importanza con l’apertura delle strade dello Stelvio, del Maloia e dello Spluga e con l'inalveamento dell'ultimo tratto dell'Adda effettuato nel 1858, che permise la bonifica del Piano di Spagna, oggi la più estesa ed importante riserva naturale della Lombardia.
Fra le molte gite che si possono effettuare partendo dall’abitato una, breve e piacevole, conduce alla pittoresca cappella di San Rocco nei cui pressi sono le “Torri di Fontanedo”, attorno alle quali si sviluppò il più antico nucleo di Colico.
ABBAZIA DI PIONA
Fiore all'occhiello del paese di Colico è l'abbazia di Piona, che però si trova in frazione Olgiasca, sul promontorio roccioso che degrada verso il laghetto semichiuso formato da una strozzatura naturale.
Venne fondata dai Monaci Cluniacensi attorno alla chiesa di San Nicolao, costruita sui resti di un oratorio edificato dal vescovo di Como Agrippino nel VII secolo.
Fu trasformata in commenda secolare, soppressa nel Settecento e restaurata all'¡nizio del nostro secolo, ed è attualmente di proprietà dei cistercensi dell'abbazia laziale di Casamari.
La chiesa, dell'Xl secolo, è a pianta irregolare, ad una sola navata con soffitto ligneo, e conserva due leoni in marmo dell'antico protiro e frammenti di affreschi del Duecento legati alla tradizione bizantina.
E’ affiancata da un campanile ricostruito nel Settecento e da un bellissimo chiostro del 1257, in cui si sovrappongono motivi architettonici romanici e gotici ed influenze d'oltralpe.
Gli affreschi delle pareti richiamano il linguaggio figurativo bizantineggiante dei dipinti all'interno dell'abbazia.
Caratteristico è il raro soggetto dell'affresco di un calendario figurato, di stile primo gotico, con immagini di santi ed episodi di vita contadina legati ai mesi dell'anno. Le quaranta colonnine e i quattro piloni portanti terminano con capitelli scolpiti ciascuno in modo diverso dall'altro.
FORTE DI FUENTES
Fu fatto costruire dall'omonimo conte spagnolo, governatore del Ducato di Milano, nel 1603, a guardia del proprio confine settentrionale dalle invasioni dei Grigioni (alleati della Repubblica di Venezia).
Di questo forte, soppresso da Giuseppe II nel 1782 e distrutto per ordine di napoleone nel 1796, riconosciamo ancora il perimetro, la residenza del governatore, la cappella dalla quale fu staccato l'affresco raffigurante Santa Barbara, oggi conservato nella moderna parrocchiale di Colico, dedicata a San Giorgio.
FORTE DI MONTECCHIO
Nel corso della storia la Valtellina ha sempre rappresentato una delle maggiori arterie commerciali da e per il Nord Europa. Ma, contemporaneamente, è stata fra le principali direttrici di transito degli eserciti invasori. Colico, proprio perché situata alla fine della Vallata, ha costituito la posizione ideale per una roccaforte.
Lo testimoniano le torri di Fontanedo ma, soprattutto, il celebre forte di Fuentes che l’omonimo conte spagnolo, governatore del Ducato di Milano, nel 1603, decise di far costruire a guardia del proprio confine settentrionale. Risalgono al 1862 gli studi, per una nuova fortificazione, voluta dalla “Commissione permanente per la difesa dello Stato”.
Il forte avrebbe dovuto arrestare invasioni provenienti dal Maloia, dallo Spluga e dallo Stelvio. Ma la Svizzera non venne ritenuta una seria minaccia e l’idea, in un primo tempo, fu accantonata. Se ne riparlerà nel 1871 con il progetto di un nuovo forte, da costruirsi sul colle di Fuentes, con una spesa preventivata in 1.500.000 lire. Ma l’anno dopo il Comitato di Sua maestà espresse parere contrario, “essendo poco probabile una violazione austriaca nel territorio svizzero; remota e facile da prevedersi in tempo, una violazione da parte della Germania”.
Si giunge così al 1901, quando il Ministero della guerra studia il posizionamento di alcune batterie di cannoni. Due, formate da quattro pezzi da 149 G e protette da un parapetto in muratura, da piazzare a Fuentes. Mentre una terza, con due cannoni, da mimetizzare in una caverna della penisola di Piona. Ma anche queste opere vennero ritenute poco urgenti.
Solo nel 1911 prende il via il progetto della “Linea di operazione Mera – Adda”. Con lo scopo, ancora una volta, di sbarrare il passaggio agli eserciti che avessero disceso la Valtellina e la Valchiavenna. Alcuni generali dello Stato Maggiore, dopo un attento sopralluogo, decisero di piazzare una batteria permanente proprio sul Montecchio Nord. Da questa posizione, infatti, sarebbe stato possibile tirare sulla sponda Occidentale del Lario, sulla strettoia di Novate Mezzola e sulla Bassa Valtellina. Si iniziò così la costruzione del forte che, inizialmente, si avvalse di un primo stanziamento di 750.000 lire.
Mentre nel 1912 il progetto venne rivisto, poiché fu ritenuto indispensabile un ampliamento della polveriera per stipare gli esplosivi, necessarie alle interruzioni stradali, precedentemente ammassati a Tanno, nei pressi di Chiavenna.
Nel dicembre del 1913, all’approssimarsi della Prima Guerra Mondiale, risultano completate le strade d’accesso, mentre per l’opera corazzata sono da poco iniziati i lavori preliminari.
Nel luglio del 1914, all’inizio delle ostilità, il forte è ancora in costruzione e, per tale ragione, i lavori subiscono una decisa accelerazione. Al punto che, nel mese di dicembre, anche l’armamento è completato e il forte è pronto ad aprire il fuoco. Oltre alle batterie del forte di Montecchio altri cannoni erano stati piazzati a Piona, fra i ruderi del forte di Fuentes e al castello di Vezio, sopra Varenna. Inoltre, essendo ritenuta troppo violabile una posizione a livello del lago, alcune batterie trovarono posti sulle pendici del Monte Legnoncino. Ma l’alto comando italiano apparve sempre poco convinto delle potenzialità del forte. Al punto che, dopo i danni provocati a giugno dagli obici austriaci al forte di Verena (Vi), venne deciso di posizionare i cannoni in luoghi più protetti e difficilmente identificabili dai nemici.
Così, come molti latri forti, nel giugno del 1915 l’armamento del Montecchio venne smantellato. Nel marzo del 1918, però, il generale Badoglio ci ripensa. Ritenendo imminente la calata da parte dell’esercito austriaco riarma, fra grandi difficoltà logistiche, la struttura. Terminata la guerra, nel corso della quale non fu mai coinvolto direttamente, il forte rimane armato ed efficiente.
Nel 1939, con il nome di “Lusardi”, viene affidato al XII settore della Gaf, la Guardia di Frontiera. E, sino agli ultimi giorni della seconda Guerra Mondiale, non è teatro di nessun evento di rilievo. Tornerà alla ribalta nel 1945, quando prese corpo il “Ridotto alpino repubblicano”. Conosciuto anche come “Progetto Valtellina”, doveva essere l’estremo tentativo di resistenza della Repubblica sociale di Mussolini. Nella vallata, infatti, erano concentrati circa 4.000 uomini fedeli al Duce e sarebbero stati loro a rappresentare l’ultimo baluardo contro l’avanzata degli Alleati. Ma il progetto non convinceva tutti i gerarchi fascisti. Anche perché alcuni erano convinti di poter contare sulla resistenza offerta dai tedeschi lungo la linea del Po.
Proprio per valutare meglio il progetto, il 20 aprile del 1945, il comandante del forte, il tenente Alberto Orio, viene convocato a Como. Una scelta fatidica perché, sorpreso dagli avvenimenti, l’ufficiale non potrà ritornare al proprio posto di comando. Ma già nel febbraio del ’45 alcuni militari, di stanza al forte, avevano raggiunto accordi con la resa del presidio con il presidente del Comitato di liberazione nazionale, Vittorino Canclini.
Tra il 25 e il 26 aprile del 1945 vi fu uno scontro armato tra militari italiani e tedeschi all’interno del forte, due soldati tedeschi morirono, il comandante interinale fu imprigionato e il Montecchio venne consegnato agli uomini del Cln. Proprio questi uomini, comandati da Battista Canclini, aprirono il fuoco, il 27 aprile, sull’autocolonna tedesca che scortava il Duce sulla parte opposta del lago. I tedeschi avevano già consegnato Mussolini ai partigiani e cercavano di raggiungere il confine Svizzero, ma furono bloccati da cinque cannonate sparate dal Cln.
I colpi andarono a vuoto perché i tedeschi avevano distrutto le carte di tiro, ma intimorirono il comandante dell’autocolonna Fallemayer, che decise di dare avvio alle trattative di pace che si conclusero con la resa firmata dai tedeschi presso l’albergo Isolabella di Colico.
Il forte oggi è una delle tipiche costruzioni progettate, all’inizio del secolo, dal generale Enrico Rocchi che è ritenuto un genio delle costruzioni militari dell’epoca. Si tratta di una struttura, completamente in cemento e pietra, a due piani, con gli alloggi dei militari realizzati in un’ala separata dal corpo centrale. I due edifici risultano collegati, grazie ad una galleria scavata nella roccia e protetta da volte dello spessore di circa due metri. Sulla sommità dell’edificio sono posizionati, in installazioni girevoli e protette da cupole di acciaio e ghisa, quattro cannoni. Si tratta del più moderno armamento utilizzato, nelle fortificazioni italiane, durante la Prima Guerra Mondiale.
I quattro pezzi sono gli unici originali conservati sino ai giorni nostri. Si tratta di armi prodotte dalla ditta francese Schneider, in quanto l’industria bellica italiana non era in grado di fornire cannoni necessari per tutte le fortificazioni. I pezzi, modello 149/35 S, oltre ad essere i più grandi cannoni presenti in Italia, sono ancora perfettamente funzionanti. Anche se, chiaramente, l’eliminazione del percussore impedisce di utilizzarli per sparare. Ogni pezzo, oltre a ruotare su se stesso, ha la possibilità di effettuare un alzo fra –8° e +42°. Possiede, inoltre, un freno, un recuperatore e un congegno ad arie compressa che permette di espellere dalla canna i gas prodotti dalla deflagrazione. Ogni cannone, dal peso di 3.800 Kg, poteva utilizzare proiettili di tipo diverso.
Lo sharapnel, da 52 Kg, raggiungeva obbiettivi posti a 11.6 Km. Mentre le granate 149 S, pesanti 42 Kg, arrivavano fino a 12.1 Km. Più leggere, ma con portata decisamente superiore, le granate monoblocco da 37 Kg, capaci di raggiungere distanze di 14.2 Km. Una particolarità dei cannoni è che non usavano cariche di lancio in bossolo, ma in sacchetto.
L’esplosivo era conservato nella polveriera scavata sotto la montagna e, nei momenti di necessità, veniva portato al piano superiore grazie ad appositi montacarichi. Mentre una squadra di artiglieri provvedeva all’immediata confezione delle cariche da utilizzare. Gli ufficiali, addetti al puntamento, si trovavano nella Camera di comando. Qui calcolavano le traettorie per mezzo delle carte e delle tavole di tiro poi, grazie a un sistema interfono, impartivano gli ordini agli uomini posizionati ai pezzi. Una cupola di osservazione, infine, consentiva di verificare l’efficacia del colpo.